Spese per l’agenzia di infortunistica non dovute quando superflue e non necessarie

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Spese per l’agenzia di infortunistica non dovute quando superflue e non necessarie (Cass. 6701/18).

In data 19.3.18, la Corte di Cassazione, con ordinanza, non ha riconosciuto le spese richieste per l’attività svolta dall’agenzia di infortunistica ritenendo non provata né l’attività svolta dall’agenzia, né l’utilità di tale intervento al fine di evitare il giudizio, di assicurare una tutela più rapida o di risolvere problemi tecnici particolarmente complessi.

Il principio espresso è il seguente: ‘In caso di sinistro stradale, ove il danneggiato abbia dato incarico ad uno studio di assistenza infortunistica di svolgere attività stragiudiziale volta a richiedere il risarcimento del danno asseritamente sofferto, la corrispondente spesa sostenuta non è configurabile come danno emergente e non può, pertanto, essere riversata sul danneggiante o sulla sua compagnia di assicurazione quando sia stata superflua ai fini di una più pronta definizione del contenzioso, non avendo avuto in concreto utilità per evitare il giudizio o per assicurare una tutela più rapida risolvendo problemi tecnici di qualche complessità (v. in termini, da ultimo, Cass. 13/04/2017, n. 9548; v. anche Cass. Sez. U. 10/07/2017, n. 16990; Cass. 13/03/2017, n. 6422; Cass. 21/01/2010, n. 997). Il riconoscimento e la liquidazione di tali esborsi sono poi soggetti agli oneri di domanda, allegazione e prova da osservare in tema di responsabilità civile extracontrattuale, dovendo dunque essere il danneggiato a dar prova non solo del sostenimento dell’esborso ma anche dell’attività in concreto espletata dall’agenzia infortunistica e della sua utilità rispetto agli scopi suindicati’.

Si riporta di seguito il testo della sentenza per intero.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 22871/2015 R.G. proposto da:

D.A., C.A., D.R., D.V. e Do.Ro., rappresentati e difesi dall’Avv. Alessandro Gracis di Conegliano, con domicilio eletto in Roma, via Monte Zebio, n. 9, presso lo studio dell’Avv. Giorgio De Arcangelis;

– ricorrenti –

contro

Generali Italia S.p.A., rappresentata e difesa dall’Avv. Luca Vecchioni e dall’Avv. Marco Vincenti, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, Via Giuseppe Ferrari, n. 35;

– controricorrente –

e contro

L.F.F. e P.M.;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Trieste, n. 203/2015 depositata il 25 marzo 2015;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 31 gennaio 2018 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.

Lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Corrado Mistri, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

  1. D.A., C.A., in proprio e quali genitori esercenti la potestà sulla figlia minore D.R., nonchè le altre figlie D.V. e Ro., convenivano avanti il Tribunale di Trieste L.F.F., P.M. e la Generali Italia S.p.A. per il risarcimento dei danni non patrimoniali iure proprio patiti a seguito del sinistro stradale occorso in data (OMISSIS) nel quale aveva perso la vita D.N., rispettivamente figlia e sorella dei predetti, trasportata a bordo dell’autoveicolo condotto dal L., di proprietà della P. e assicurato per la responsabilità civile dalla Generali Italia S.p.A..

Solo quest’ultima si costituiva asserendo che le somme già corrisposte (pari a Euro 200.000 per ciascun genitore, Euro 95.000 per la sorella Ro. e Euro 60.000 per ciascuna delle altre sorelle) risultavano satisfattive di ogni pretesa risarcitoria.

Espletata c.t.u. il tribunale riconosceva a carico di ciascuno dei due genitori un danno psichico con invalidità permanente determinata nella percentuale del 21% e, a carico di ciascuno degli attori, un concorrente danno da perdita del rapporto parentale. Liquidava tali danni secondo i parametri indicati dalle Tabelle milanesi vigenti al momento della decisione (2011), scorporando però dal primo (danno psichico a carico dei genitori) l’aumento previsto a titolo di danno morale soggettivo “atteso che lo stesso non può più ritenersi limitato alla sofferenza transeunte ed immediata derivante dalla lesione, bensì è da intendersi quale patimento che accompagna l’intera vita del congiunto e, come tale, già integralmente risarcito da quanto riconosciuto alla voce di danno da lesione del rapporto parentale”.

Condannava pertanto i convenuti, in solido, al pagamento in valuta attuale delle somme di:

  1. a) Euro 281.547,53 in favore del padre, D.A.;
  2. b) Euro 251.783,22 in favore della madre, C.A.;
  3. c) Euro 80.000 in favore della sorella, D.R.;
  4. d) Euro 100.000 in favore di ciascuna delle altre sorelle, D.V. e Ro.;

oltre interessi compensativi nella misura dell’1% annuo dalla data dell’evento al saldo, detratti gli acconti ricevuti previa rivalutazione.

  1. Tutti i predetti interponevano appello lamentando: l’esclusione di un autonomo apprezzamento, tra i pregiudizi risarcibili, del danno morale; la riduttiva stima dei pregiudizi medesimi; la scelta di inadeguati parametri medi nella liquidazione del danno; il rigetto della domanda tendente al rimborso delle spese per consulenza legale stragiudiziale; un errore di calcolo nella determinazione del risarcimento complessivo spettante ad C.A..

La Corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha riconosciuto la fondatezza solo dell’ultima doglianza (considerata come volta alla correzione di un errore materiale, effettivamente sussistente) e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha condannato i convenuti in solido al pagamento in favore di C.A. della somma di Euro 281.783,22, confermando per il resto la prima decisione; ha inoltre condannato gli appellanti in solido alla rifusione, in favore della compagnia di assicurazioni, unica tra gli appellati a costituirsi, delle spese del grado.

  1. Avverso tale sentenza D.A., C.A., D.R., V. e Ro. propongono ricorso per cassazione articolando sette motivi, cui resiste la predetta compagnia di assicurazioni, depositando controricorso.

L.F.F. e P.M. non svolgono difese. I ricorrenti depositano memoria ex art. 380-bis c.pc.., comma 1.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo di ricorso (pagg. 60-84) si deduce violazione del diritto all’integrale riparazione dei danni non patrimoniali connessi alla soppressione del vincolo familiare (artt. 2, 29 e 30 Cost.; artt. 1223, 1226, 2043, 2056 e 2059 c.c.), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamentano i ricorrenti che la liquidazione del danno non patrimoniale da perdita di congiunto, effettuata dai giudici di merito, “è stata attuata mediante la determinazione dell’importo omnicomprensivo mutuato da un valore pescato a caso all’interno del range della tabella milanese”.

Sostengono che essa invece “avrebbe dovuto includere, nel rispetto del principio dell’integralità della riparazione… sia la sofferenza interiore e lo stato di prostrazione derivanti dall’avvenimento luttuoso…, sia le conseguenze nell’ambito delle relazioni parentali e familiari”.

Si dolgono che “la sentenza di appello non ha minimamente considerato tutte le circostanze di fatto evidenziate, dalle quali trarsi la prova della reale entità delle sofferenze e delle privazioni relazionali patite”, giungendo a una liquidazione riduttiva del danno.

  1. Con il secondo motivo (pagg. 84-89) i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “violazione della nomofilachia delle Sezioni Unite del 2008 e degli artt. 1223 e 1226 cod. civ., nella parte in cui la sentenza ha inteso avallare i dicta del Tribunale di Trieste che avevano propugnato tout court la non cumulabilità dei danni morali e di quelli esistenziali nel caso di decesso di un congiunto”.

Rilevano che, avendo la sentenza d’appello confermato integralmente la stima dei danni operata dal primo giudice per ciascun superstite, non è possibile capire – “con tali premesse di ordine generale sulla duplicazione dei danni” – se i giudici abbiano inteso liquidare, nella concreta fattispecie, solo il danno morale soggettivo e non anche quello c.d. esistenziale da lesione del rapporto parentale, ovvero solo il secondo e non anche il primo.

Affermano che “in ogni caso è evidente l’error iuris commesso” e l’incompletezza della quantificazione così ottenuta, atteso che “al di là delle etichette” ciò che avrebbe dovuto rilevare era l’ontologica essenza delle poste di danno in gioco (il sentire e il non fare per la vita che cambia).

  1. Con il terzo motivo (pagg. 89-92) denunciano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione degli artt. 1223, 1226, 2056 e 2059 c.c., nonchè degli artt. 2, 29, 30 e 32 Cost., lamentando “ulteriore fraintendimento sulla natura dei danni psichici e di quelli parentali da perdita di congiunto… con conseguente ingiusta limitazione dell’integrale loro risarcimento”.

La doglianza è riferita all’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui “le peculiarità del caso di specie – che riguardano le persone di D.A. e C.A. – non possono costituire elementi di prova al fine di riconoscere la liquidazione del danno parentale nella misura massima (o vicina ai massimi) secondo i criteri stabiliti dalle Tabelle di Milano, in quanto tali peculiarità risultano già essere state valutate… ai fini della determinazione della percentuale di invalidità” (da danno psichico).

Sostengono di contro che le anomalie comportamentali valorizzate ai fini del riconoscimento del danno psichico a carico di D.A. (costruzione mausoleo, abbandono del lavoro, frequenze ossessive delle visite al cimitero, etc.), rappresentavano al contempo anche ostacoli al regolare funzionamento familiare, specie per le due figlie più piccole, e dunque costituivano anche fatti rilevanti ai fini della valutazione della compromissione del diverso bene dell’integrità e della solidarietà familiare di cui erano portatori il proprio coniuge e le altre figlie.

  1. Con il quarto motivo (pagg. 92-101) i ricorrenti denunciano ancora violazione del diritto all’integrale riparazione dei danni non patrimoniali (da lesione della) salute psichica, subiti dai due genitori per la morte della figlia ventenne (art. 32 Cost.; artt. 1223, 1226, 2043, 2056 e 2059 c.c.), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Affermano che erroneamente i giudici di merito hanno: a) ritenuto assorbito nel danno parentale la “ben diversa componente morale del danno biologico derivante dalla… lesione della… salute psichica”; b) ridotto la stima del danno psichico (dalla percentuale di invalidità permanente del 25% a quella del 21%) in ragione della “pretesa rilevanza di eventi psicotraumatici o life events dei quali non è dato capire la portata ed il significato”, oltre che di una “riduzione unilaterale del valore del punto biologico”.

  1. I motivi suesposti – congiuntamente esaminabili per la loro intima connessione – sono infondati, anche se occorre parzialmente correggere la motivazione, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4.

La decisione impugnata, in punto di liquidazione dei danni non patrimoniali dedotti in giudizio, risulta invero, nei suoi esiti finali, rispettosa dei principi di unitarietà e omnicomprensività al riguardo predicati dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con le note sentenze nn. 26972-26975 del 2008, anche se non del tutto corretta ne risulta in motivazione la declinazione rispetto alla peculiarità della fattispecie concreta.

A tal fine si rendono opportune le premesse che seguono.

5.1. Come di recente più volte affermato, “natura unitaria sta a significare che non v’è alcuna diversità nell’accertamento e nella liquidazione del danno causato dal vulnus di un diritto costituzionalmente protetto diverso da quello alla salute, sia esso rappresentato dalla lesione della reputazione, della libertà religiosa o sessuale, della riservatezza, del rapporto parentale.

“Natura omnicomprensiva sta invece a significare che, nella liquidazione di qualsiasi pregiudizio non patrimoniale, il giudice di merito deve tener conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, onde evitare risarcimenti c.d. bagattellari” (Cass. 20/04/2016, n. 7766; 23/09/2016, n. 18746; 14/11/2017, n. 26805; 17/01/2018, n. 901).

Tale indagine va condotta: a) da un lato tenendo conto della “doppia dimensione fenomenologica” del danno derivante dalla lesione (da ogni lesione) di interessi della persona costituzionalmente protetti, quella di tipo dinamico/relazionale e quella di natura interiore (la sofferenza morale stricto sensu intesa) (v. Cass. 09/06/2015, n. 11851; Cass. n. 901 del 2018, cit.); b) dall’altro tenendo fermo che il danno non patrimoniale risarcibile (come del resto anche il danno patrimoniale) è danno conseguenza e non danno evento e che la sua valutazione e liquidazione hanno riguardo pertanto alle conseguenze pregiudizievoli dell’evento di danno e non già all’evento stesso (ciò tra l’altro comportando che, così come la lesione d’un solo interesse può provocare pregiudizi diversi, per converso la lesione di interessi diversi può provocare pregiudizi identici o sovrapponibili: v. in termini Cass. 08/05/2015, n. 9320).

Se è vero dunque che ogni lesione va indagata nella sua duplice predetta componente dannosa (morale/interiore; relazionale/esteriore) è anche vero che, in caso di illeciti plurioffensivi, se le conseguenze pregiudizievoli rilevate risultino in tutto o in parte sovrapponibili, le stesse non possono essere liquidate due o più volte quanti sono gli interessi lesi cui sono al contempo riconducibili.

Proprio qui si colgono il senso e l’importanza del principio di unitarietà di liquidazione del danno non patrimoniale, il quale non vuol certo dire che, quando l’illecito produca pregiudizi non patrimoniali eterogenei anche in ragione della diversità degli interessi lesi (es. danno alla salute, danno alla libertà personale, etc.), la liquidazione di un tipo di danno non patrimoniale (es. danno alla salute) assorbe sempre e necessariamente tutte le altre, ma vuol piuttosto dire che lo stesso danno non può essere liquidato due volte sol perchè lo si chiami con nomi diversi (Cass. n. 9320 del 2015, cit.).

Nel caso di specie l’evento dannoso è unico (la morte della stretta congiunta dei soggetti che reclamano il risarcimento iure proprio) ma plurioffensivo, avendo dato luogo alla lesione di più interessi della persona costituzionalmente protetti; diversi non solo perchè facenti capo a diverse vittime secondarie ma anche perchè più d’uno lesi in capo a talune di esse (i genitori), ciascuno oggetto di distinta protezione costituzionale: da un lato il diritto alla salute (in questo caso la salute psichica); dall’altro il diritto al rapporto parentale (costituzionalmente protetto dagli artt. 2, 29, 30 e 31 Cost.).

A fronte dunque di una fattispecie così articolata la motivazione della sentenza impugnata si rivela in effetti errata nella parte in cui (v. pag. 19, primo capoverso) riconduce alla perdita del rapporto parentale la componente dinamico relazionale (in sentenza definita “esistenziale”) dei pregiudizi rilevati senza distinguere la posizione dei diversi soggetti danneggiati e, dunque, anche con riferimento a quella dei genitori della vittima primaria, per i quali il separato apprezzamento anche di un danno biologico (psichico) è in sentenza considerato (solo) quale motivo per escludere la necessità di procedere ad adeguamento (personalizzazione) dell’importo liquidato per danno parentale (v. pagg. 20-21 della sentenza impugnata).

In realtà, mentre la riconduzione di entrambe le componenti dannose (morale/interiore; relazionale/esteriore) alla lesione del rapporto parentale è corretta per le sorelle, quanto ai genitori, invece, il danno biologico (danno psichico) separatamente liquidato identifica ed assorbe per intero – in una fattispecie quale quella in esame ove la patologia origina dallo stato di profonda prostrazione e lutto a sua volta derivato dall’unico evento di danno – proprio la componente relazionale che si ritiene di ricondurre alla lesione del rapporto parentale.

Occorre al riguardo rammentare che i pregiudizi di carattere relazionale, ovvero legati alla “proiezione esterna dell’essere”, sono compresi nella definizione stessa di danno biologico (quale ovviamente è anche il danno psichico) e ne costituiscono l’essenza, datane la nozione c.d. dinamico/funzionale accolta da oltre due decenni nella giurisprudenza di questa Corte e ora positivizzata nel D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 138, comma 2, lett. a) e art. 139, comma 2 (Codice delle assicurazioni private), a mente del quale “per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale, che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”.

Resta per converso invece riconducibile per intero alla lesione del rapporto parentale, anche per i genitori (come rettamente rilevato dal giudice di primo grado), la sofferenza morale, non essendo distinguibile, per le ragioni dette, una sofferenza interiore riferibile alla lesione del diritto alla salute (in termini ad es. di rabbia o preoccupazione per le proprie condizioni di salute) ulteriore e distinguibile da quella derivante dalla perdita della persona cara, in una situazione in cui, al contrario, ossia secondo un percorso logico inverso, sono proprio la gravità del lutto e la profondità dell’intimo dolore provato, nella impossibilità/incapacità dell’individuo di elaborarlo secondo uno sviluppo fisiologico, a sfociare anche in compromissione oggettivamente apprezzabile dell’integrità psicofisica con effetti invalidanti permanenti (disturbo depressivo maggiore cronico di grado lieve).

5.2. Al netto (e alla luce) di tali doverose precisazioni sulla corretta imputazione delle conseguenze pregiudizievoli apprezzate in capo ai singoli soggetti danneggiati, non può comunque dubitarsi che queste risultino in concreto tutte considerate e adeguatamente valutate ai fini della aestimatio del danno, la cui traduzione in termini monetari – non risultando meramente simbolica e irrisoria e collocandosi per ciascuno dei danneggiati all’interno, a livelli medi o medio-alti, del range dettato dalle tabelle maggiormente diffuse sul territorio nazionale – costituisce legittimo esercizio del potere equitativo attribuito esclusivamente al giudice del merito e come tale insindacabile in questa sede se, come nella specie, congruamente motivato.

Le considerazioni svolte rendono anzi palese l’infondatezza delle censure al riguardo svolte, dovendosi escludere nella prospettiva esposta che l’applicazione di parametri medi per la liquidazione del danno parentale sofferto dai genitori comporti una sottostima dello stesso, nè tanto meno l’esclusione dal risarcimento di taluni pregiudizi; la parametrazione del danno secondo valori medi, già di per sè insindacabile, trova infatti, a maggior ragione, giustificazione nel rilievo che, nel caso di specie, come detto, la componente relazionale/esteriore del danno deve considerarsi già per intero considerata e assorbita nella liquidazione del danno biologico (psichico).

5.3. La censura, poi, con la quale (terzo motivo) si lamenta l’omessa considerazione dei danni alle relazioni familiari causati dalle stesse anomalie comportamentali manifestate dal padre in conseguenza della patologia psichica contratta, è inammissibile e comunque infondata.

Inammissibile perchè introduce un tema che non risulta trattato nei gradi di merito.

Infondata perchè non è ravvisabile un nesso di regolarità causale che consenta di correlare tale ulteriore danno, secondo nesso di causalità giuridica ex art. 1223 c.c. e art. 2056 c.c., comma 1, all’evento lesivo ascritto alla responsabilità dell’autore dell’illecito (morte del congiunto).

Non è peraltro offerto alcun elemento che consenta di distinguere la lesione del rapporto parentale conseguente al danno psichico subito da uno dei genitori da quella conseguente, e in sè già apprezzata ai fini risarcitori, dalla morte della congiunta.

5.4. Inammissibile è anche la censura che, nel quarto motivo, investe la determinazione della percentuale invalidante del danno psichico.

Tale stima è giustificata in sentenza (pagg. 22-23) attraverso il richiamo di ampio stralcio della relazione di c.t.u. ove si evidenzia l’esigenza di tener conto della multifattorialità del danno e di ponderarne l’entità in misura “quali-quantitativamente coerente con l’oggettiva rilevanza dell’evento” e la sua capacità di emergere quale elemento “non derivabile solamente dal vissuto soggettivamente rappresentato dal leso”: capacità apprezzata, nella specie, in un “coefficiente pari allo 0,83 (settimo livello di una scala di otto)” che, applicato ad una percentuale “grezza” del 25%, conduce alla stima di una percentuale invalidante oggettivamente riconducibile all’evento lesivo pari al 21%.

La riduzione dunque della percentuale di invalidità dal 25% (perc. “grezza”) al 21% non è frutto – come sembrano dolersi i ricorrenti – della arbitraria considerazione di fatti processualmente non emersi idonei a ridurre la rilevanza causale dell’evento lesivo, ma di considerazioni di carattere tecnico medico-legale, che attengono ai criteri adottati per la stima del danno psichico quale oggettivamente rilevato dall’esame medico-legale, criteri peraltro coerenti con le indicazioni che provengono dalla scienza medica, concordi nell’avvertire della necessità di tener sempre presente la natura inevitabilmente multifattoriale del danno psichico.

Con tali considerazioni il ricorso non si confronta, risolvendosi per tale aspetto nella mera generica critica del risultato valutativo ottenuto.

5.5. Inammissibile, per più ragioni, è poi la censura con la quale si denuncia un’erronea individuazione del valore del punto secondo le Tabelle richiamate.

Non risulta, anzitutto, che la questione sia stata prospettata in sede di gravame e comunque la doglianza si appalesa generica e non autosufficiente, non essendo riprodotte le tabelle richiamate nella parte che si assume violata, nè precisato se esse siano state ritualmente prodotte in giudizio, nè, ancora, la loro eventuale collocazione nel fascicolo di causa.

  1. Il quinto motivo (pagg. 101-119) investe il rigetto della domanda di risarcimento del danno emergente rappresentato dal costo dei servizi resi dalla società infortunistica Gestione Sinistri S.r.l. e si articola a sua volta in tre censure.

6.1. Con la prima i ricorrenti denunciano “violazione della regola processuale del tantum devolutum (quantum appellatum, n.d.r.) e del no eat judex ex officio”.

Rilevano che, mentre in primo grado la decisione sul punto aveva poggiato sul rilievo per cui tale danno avrebbe potuto evitarsi se i creditori avessero usato l’ordinaria diligenza ex art. 1227 c.c., comma 2 – ciò sull’implicito presupposto, assumono i ricorrenti, che il danno fosse provato nel quantum -, in appello, in assenza di contestazioni che mettessero in discussione tale implicita acquisizione, il rigetto era stato confermato, sia, in facto, per la ritenuta insufficienza probatoria in merito al tipo di attività esercitata dalla mandataria, sia, in iure, per un preteso assorbimento dell’attività stragiudiziale in quella tecnica endoprocessuale i cui costi rientrano tra le spese processuali da regolare ai sensi dell’art. 91 c.p.c..

6.2. Con la seconda denunciano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “violazione del dovere del giudice di esaminare tutti i documenti versati in giudizio dagli attori e di non prescinderne”.

Rilevano che risultavano versati in atti i mandati, le raccomandate ex art. 145 cod. ass., contenenti le ragionate richieste risarcitorie, formulate dalla società infortunistica in nome e per conto delle vittime, nonchè la raccomandata del 18/11/2008 con la quale la mandataria aveva respinto, in nome e per conto dei mandanti, l’offerta di pagamento a saldo formulata dalle Generali, imputandolo solo ai maggiori danni.

6.3. Con la terza deducono, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “violazione degli artt. 1223 e 1227 c.c., per avere la Corte d’appello confermato la non risarcibilità degli esborsi sostenuti dagli appellanti per retribuire l’attività di assistenza stragiudiziale fornita dalla Gestioni Sinistri S.r.l. in quanto non necessaria e già ricompresa nella rifusione delle spese di lite”.

  1. Con il sesto motivo (pagg. 119-121) i ricorrenti denunciano, poi, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3-4 e con riferimento al medesimo tema, violazione dell’art. 345 c.p.c., per avere la Corte d’appello ritenuto inammissibile la produzione di documenti formati successivamente alla maturazione dei termini in primo grado e rappresentati dalle fatture a saldo delle competenze pagate alla Gestione Sinistri S.r.l..
  2. I suddetti motivi (quinto e sesto), anch’essi congiuntamente esaminabili perchè strettamente connessi, sono in parte infondati, in altra parte inammissibili.

8.1. Secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, in caso di sinistro stradale, ove il danneggiato abbia dato incarico ad uno studio di assistenza infortunistica di svolgere attività stragiudiziale volta a richiedere il risarcimento del danno asseritamente sofferto, la corrispondente spesa sostenuta non è configurabile come danno emergente e non può, pertanto, essere riversata sul danneggiante o sulla sua compagnia di assicurazione quando sia stata superflua ai fini di una più pronta definizione del contenzioso, non avendo avuto in concreto utilità per evitare il giudizio o per assicurare una tutela più rapida risolvendo problemi tecnici di qualche complessità (v. in termini, da ultimo, Cass. 13/04/2017, n. 9548; v. anche Cass. Sez. U. 10/07/2017, n. 16990; Cass. 13/03/2017, n. 6422; Cass. 21/01/2010, n. 997).

Il riconoscimento e la liquidazione di tali esborsi sono poi soggetti agli oneri di domanda, allegazione e prova da osservare in tema di responsabilità civile extracontrattuale, dovendo dunque essere il danneggiato a dar prova non solo del sostenimento dell’esborso ma anche dell’attività in concreto espletata dall’agenzia infortunistica e della sua utilità rispetto agli scopi suindicati (v. Cass. Sez. U. n. 16990 del 2017, cit.).

Nel caso di specie la Corte di merito ha disconosciuto la risarcibilità dei detti esborsi in ragione della ritenuta mancanza di tale prova.

Ha infatti rilevato che: “gli attori hanno allegato fatture per il considerevole importo complessivo di Euro 54.850,00… a fronte di un’attività sostanzialmente non provata, fatta eccezione per l’invio di alcune raccomandate”; “i contratti di mandato stipulati non giustificano il riconoscimento del danno emergente richiesto”; “l’invio delle raccomandate dirette a mettere in mora la convenuta compagnia di assicurazioni… (costituisce) esercizio di una condizione di improcedibilità dell’azione, come tale, il relativo costo non può che essere assorbito nelle spese di lite”.

Decidendo in tal modo essa ha fatto corretta applicazione dei principi richiamati, palesandosi pertanto insussistente l’error iuris dedotto con la terza delle suindicate censure (p. 6.3). La decisione infatti, nei termini esposti, non è frutto di una aprioristica esclusione delle spese per i servizi resi da agenzia infortunistica dal novero dei danni risarcibili, ma piuttosto della valutazione della insussistenza, in fatto, alla stregua dei documenti acquisiti, di prova concreta delle prestazioni rese (plausibilmente ritenuta non ricavabile dalle fatture emesse dall’agenzia medesima, nè dai contratti di mandato) ovvero della loro utilità al fine di “assicurare una tutela più rapida risolvendo problemi tecnici di qualche complessità”, risultando poi meramente aggiuntivo e dunque non decisivo ai fini di detta valutazione il rilievo secondo cui le spese relative alle raccomandate di messa in mora possono considerarsi assorbite nelle spese di lite.

8.2. Nè l’esposta motivazione comporta violazione del principio tantum devolutum quantum appellatum.

Non è dato, anzitutto, ricavare dalla motivazione sul punto adottata dal giudice di primo grado (quale desumibile dalla relativa trascrizione contenuta nella sentenza di secondo grado) l’affermazione che da essa i ricorrenti assumono potersi trarre per implicito, ossia il riconoscimento della sussistenza di prova della concreta attività espletata (ritenuta tuttavia dal tribunale inidonea a giustificare la pretesa risarcitoria perchè superflua evitabile con l’ordinaria diligenza).

Al contrario è chiaro che la valutazione del primo giudice si muove espressamente su un piano astratto e ha riguardo esclusivamente alle sole allegazioni degli attori, già di per sè valutate, a prescindere dunque da alcuna verifica probatoria, inidonee a giustificare la domanda (si osserva infatti che “nel caso di specie, sebbene l’attività prestata dalla società di infortunistica Gestione Sinistri S.r.l. sia astrattamente riconducibile al fatto illecito per cui è causa essa, tuttavia, non appare necessitata dall’illecito stesso. Gli attori hanno infatti allegato che l’attività della società stessa si sarebbe limitata all’invio di alcune raccomandate contenenti solleciti di pagamento; attività che, si ritiene, ben avrebbe potuto essere svolta dagli attori stessi con l’uso dell’ordinaria diligenza”).

In tale contesto è evidente che la decisione dei giudici d’appello non decampa in alcun modo dai limiti del devoluto, quali segnati dai motivi d’appello e dalle eccezioni riproposte, esprimendo valutazioni non basate su accertamenti di fatto diversi da quelli postulati dal primo giudice e non più posti in discussione dalle parti in appello, ma anzi pienamente coerenti e pressochè in tutto conformi a quelle del primo giudice.

Varrà peraltro rammentare che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, il limite all’effetto devolutivo segnato dall’art. 346 c.p.c., con la prevista decadenza dalle domande e dalle eccezioni che, non accolte nella sentenza di primo grado, non sono espressamente riproposte, concerne esclusivamente le eccezioni in senso stretto e non riguarda i fatti dedotti dalle parti a fondamento della domanda o della eccezione nè le inerenti deduzioni probatorie, che, sottoposti al giudice di primo grado, tornano a costituire oggetto di esame, valutazione ed accertamento da parte del giudice di appello, in quanto questi, a causa della impugnazione, torna a doversi pronunciare sulle domande o eccezioni investite dal gravame e quindi a dover esaminare fatti, allegazioni probatorie e ragioni giuridiche già dedotte in primo grado e rilevanti ai fini del giudizio sulla domanda o sull’eccezione, da intendersi implicitamente richiamate con la proposizione dell’impugnazione o l’istanza di rigetto di questa (Cass. 07/03/1990, n. 1768; Cass. 19/06/1993, n. 6843; Cass. 06/04/2000, n. 4322).

8.3. Ne discende anche l’inammissibilità della censura svolta con il sesto motivo, non essendo illustrata la decisività del documento della cui mancata ammissione in appello ci si duole, nè comunque questa potendo obiettivamente apprezzarsi, in relazione al descritto quadro di riferimento, trattandosi di altra fattura idonea al più a dimostrare l’avvenuto esborso ma non anche la consistenza delle prestazioni rese e la loro utilità ai fini predetti.

8.4. E’ anche inammissibile la censura che, all’interno del quinto motivo, è poi dedotta (v. supra p. 6.2) ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto estranea al relativo paradigma.

E’ noto infatti che, secondo il nuovo testo di detta norma processuale, quale risultante dalla modifica introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile ai ricorsi proposti avverso sentenze depositate dall’11 settembre 2012), dà luogo a vizio della motivazione sindacabile in cassazione l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia), mentre non integra tale vizio l’omesso esame di elementi istruttori, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U 07/04/2014, n. 8053; Id. 22/09/2014, n. 19881).

Nel caso di specie i ricorrenti si dolgono genericamente del mancato esame “di tutti documenti versati in giudizio” (v. pag. 102 del ricorso), facendo poi un pò meno generica menzione soltanto dei “mandati”, delle “raccomandate ex art. 145 cod. ass., contenenti le ragionate richieste risarcitorie, formulate dalla società infortunistica in nome e per conto delle vittime” e di una “raccomandata del 18/11/2008 con la quale la mandataria aveva respinto, in nome e per conto dei mandanti, l’offerta di pagamento a saldo formulata dalle Generali, imputandolo solo ai maggiori danni” (pag. 117).

E’ evidente però che, quanto ai mandati e alle raccomandate contenenti richieste risarcitorie, si tratta di fatti la cui considerazione non è stata affatto omessa dai giudici d’appello, ma dei quali anzi essi hanno espresso una motivata valutazione di irrilevanza ai fini dell’accoglimento della domanda.

Quanto poi alla raccomandata del 18/11/2008, la stessa viene troppo genericamente richiamata, non essendone nemmeno trascritto il contenuto, nè essendo in alcun modo illustrata la decisività del fatto da essa, in tesi, documentato ai fini di una diversa decisione.

La censura, nel suo complesso, tende inammissibilmente a sollecitare una nuova valutazione del materiale istruttorio, attività certamente estranea alla funzione istituzionale del giudice di legittimità (Cass. 28/03/2012, n. 5024; Cass. 07/01/2014, n. 91).

  1. Con il settimo motivo, infine, i ricorrenti denunciano (pagg. 121-122 del ricorso), ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 91 c.p.c., per avere la Corte d’appello, pur accogliendo il settimo motivo di gravame, condannato essi appellanti alla rifusione delle intere spese del grado in favore di controparte.

Il motivo è infondato.

L’istanza di correzione non integra motivo di gravame (v. Cass. n. 19284 del 12/09/2014) e conseguentemente – così come, ove proposta con autonoma istanza ex art. 287 c.p.c., al di fuori del giudizio d’appello, nel relativo procedimento non è ammessa alcuna pronuncia sulle spese processuali (in quanto la natura ordinatoria e sostanzialmente amministrativa del provvedimento che accoglie o rigetta l’istanza di correzione non consente di riconoscere la presenza dei presupposti richiesti dall’art. 91 c.p.c., che pongono riferimento, per una pronuncia di condanna sulle spese, ad un procedimento contenzioso idoneo a determinare una posizione di soccombenza: Cass. 28/03/2008, n. 8103) – allo stesso modo il suo accoglimento da parte del giudice d’appello di per sè non può assumere alcun rilievo ai fini della valutazione della soccombenza nel relativo giudizio, la quale va esclusivamente riferita all’esito della controversia quale delimitata dai motivi di gravame veri e propri e dalle eccezioni eventualmente riproposte ai sensi dell’art. 346 c.p.c..

Correttamente pertanto la Corte d’appello ha ritenuto interamente soccombenti gli appellanti, stante il rigetto dei motivi tutti di gravame, diversi dall’istanza di correzione nel quale si risolveva l’ultimo di essi, e, conseguentemente, altrettanto legittimamente, li ha condannati alle spese del grado in ragione di tale integrale soccombenza.

  1. Per le considerazioni che precedono deve in definitiva pervenirsi al rigetto del ricorso.

Avuto tuttavia riguardo alla peculiarità della controversia e alla parziale correzione della motivazione resasi necessaria ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., si ravvisano i presupposti per una parziale compensazione, in ragione di un terzo, delle spese del presente giudizio di legittimità.

I restanti due terzi, liquidati come da dispositivo in favore della controricorrente, vanno posti a carico dei ricorrenti, in solido.

Ricorrono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Compensa per un terzo le spese del presente giudizio di legittimità e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento, in favore della controricorrente, dei restanti due terzi, che liquida in Euro 6.600 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 14 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 marzo 2018


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